Il 1968, anche se molte persone oggi fanno bella mostra d’averlo
dimenticato, non fu davvero anno propizio alla costruzione di arpe eolie.
In questo anno accigliato e privo di eros, nel quale persino la mistificazione
pareva densa di contenuti necessari, io mi accinsi con grande entusiasmo
all’elaborazione di Cartridge
Music di John Cage, uno dei lavori meno studiati ma più importanti
del compositore da poco scomparso.
Nel cercare “ad usum Cage” e come Colombo “el levante
por el ponente”, mi imbattei in un oggetto decisamente culinario,
la cosiddetta chitarra abruzzese: un telaio di legno sul quale parecchi
fasci di corde metalliche in tensione servono a tagliare esattamente l’omonima
pasta, apprezzata e ricercata in patria e all’estero anche dai cultori
della Nuova Musica, nei quali attualmente l’ansia di levità
e leggerezza, con l’alibi della nostalgia, mette sempre più
a tacere l’antico cilizio, l’antica disciplina.
In caccia di “suoni non altrimenti udibili”, sottoponevo l’oggetto
ad elettroniche vessazioni, sconosciute alle massaie abruzzesi e non ancora
in grado di fornirmi il risultato che cercavo; cioè dei suoni la
cui presenza fosse tale da renderli idonei a formare un discorso musicale
trasportabile in una sala da concerti.
Un giorno – il mio studio allora dava sul mare -, non so più
se per ricordo dei poemi di Ossian o per omaggio a Goethe, mi venne l’idea
di esporre la chitarra nell’arco della finestra del terrazzo.
Il risultato fu per me emozionante, anche se privo ancora di concrete
possibilità d’applicazione: grazie ad una amplificazione
elettronica spropositata, ottenni effettivamente i primi suoni eolici
della mia carriera. Una ulteriore spinta, decisiva – direi quasi
traumatica -, ricevetti da una visita casuale allo studio elettronico
R7 di Roma. Il tecnico dello studio, Guido Guiducci, persona dotata di
inesauribile fantasia e in continua ricerca di soluzioni alternative ai
problemi dell’allora ancor giovane elettroacustica sperimentale,
aveva costruito un telaio metallico sul quale un avvolgimento di filo
d’acciaio di spessore infinitesimale dava luogo ad una doppia superficie
di corde il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di dotare lo studio
d’una eco artificiale in sostituzione della cosiddetta eco “a
piastra”, ingombrante e relativamente costosa.
L’esperimento non sortì l’effetto sperato. Prima d’essere
abbandonato tra i ferrivecchi, l’oggetto servì tuttavia ad
una curiosa applicazione: soffiando lievemente sulle corde e facendo contemporaneamente
uso d’un microfono molto sensibile, Guiducci registrò su
nastro magnetico una sequenza di suoni eolici che ebbero se non altro
l’effetto di turbare i miei sonni e di convincermi ancor più
della necessità, per me, di insistere nella ricerca iniziata.
Passarono alcuni anni e il problema, ancora irrisolto, si trascinò
con me fino a Berlino dove, quale artist in residence del DAAD (Deutscher
Akademischer Austauschdienst), ebbi finalmente l’agio di attrezzare
un vero e proprio laboratorio artigiano – non più un’estensione
del mio tavolo da lavoro di musicista – e di riprendere quindi con
successo la vecchia idea. Era il 1973; l’anno successivo registrai
in prima esecuzione, presso gli studi RAI di Milano, Chanson
pour instruments à vent, installazione di arpe e “gong
eolici” per un esecutore.
Tre dei cinque oggetti eolici (attenzione: non strumenti!) usati nel progetto
odierno sono tratti da Chanson, e questo spiega il titolo; quanto al bisticcio
tra il nome dell’Associazione che mi ha commissionato il lavoro
e il nome classico di “Ricercare”, forma musicale che anticipa
la Fuga, spero mi sia perdonato. Più grave ancora sarebbe il sospetto
che io, seguendo cattive abitudini attuali, avessi voluto riferirmi per
debolezza ad un passato musicale glorioso ma non replicabile e avessi
cercato in esso una inadeguata legittimazione.
Niente di tutto ciò: sia i detrattori che i sostenitori eventuali
del mio lavoro si tranquillizzino. Ricercare 1992, per tre arpe eolie,
due costruzioni di “gong” eolici e due esecutori, anche se
nella struttura si serve di alcune corrispondenze e proporzioni tratte
dalla prassi contrappuntistica tradizionale, all’ascolto offrirà
soltanto un fluire ininterrotto di sonorità molto più vicine
al ritmo e al respiro del vento che non alla stilizzata sovrimpressione
di figure appartenenti alla pratica strumentale e alla morfologia della
musica antica o contemporanea.
Mario
Bertoncini
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